In questo momento di emergenza mondiale, i temi della coscienza civica e quello dell’etica dei comportamenti assumono un ruolo predominante.
Il richiamo “presidenziale” alla solidarietà gruppale e alla responsabilità personale rimanda nel concreto all’adozione di comportamenti sicuri e responsabili.
La decisione di adottare pedissequamente o meno, le indicazioni comportamentali del vademecum ufficiale del Ministero della Sanità in tema COVID 19, fa parte dei processi cognitivi legati alla percezione del rischio.
Un aspetto che vorrei porre in attenzione è quello legato all’esibizione sempre più frequente della violazione comportamentale, intesa ed esemplificata nel “so che dovrei comportarmi così, ma nel concreto mi comporto diversamente”.
Scomodando L.Festinger, potrei dire che siamo di fronte ad uno dei tanti esempi di dissonanza cognitiva, cioè di “potenziale” stato di disagio scaturito dall’incoerenza tra quello che penso/credo e come poi in realtà mi comporto.
Ma nella realtà è proprio l’agire al contrario dell’effetto della solidarietà gruppale, ad attutire o addirittura annullare il personale quanto auspicato disagio.
Ritengo invece che sia più un problema di un’errata percezione del rischio, la causa determinante e propulsiva di comportamenti elusi e violanti le indicazioni comportamentali tese a ridurre il contagio del COVID 19.
Da dove può nascere questa disfunzionale, per la salute della collettività e per la propria, errata percezione del rischio?
Ricordiamoci che il nostro cervello prende spesso scorciatoie, che non aiutano a percepire correttamente il rischio:
Ad esempio (tratto dal Vademecum dell’Ordine degli Psicologi della Liguria): ricordiamo di più e facciamo maggiormente caso ai fatti che riportano le peggiori conseguenze.
Stimiamo più alta la probabilità di un evento se questo riceve forte attenzione mediatica ed è ad alto contenuto ed impatto emotivo.
Valutiamo più grave una minaccia le cui conseguenze sono visibili nell’immediato ( COVID-19 versus Emergenza climatica).
Un contributo importante a mio avviso è dato dall’infausta assunzione “in tanto accadrà agli altri e non a me” che ha un forte grado di parentela con la sindrome “Nimby”, not in my back yard, letteralmente “non nel mio cortile”).
Sempre in tema di “Nimby” la situazione odierna ci impone un atteggiamento di coscienza civica e responsabilità che ci dovrebbe spostare su un più utile “Pimby”, “please in my back yard”, letteralmente “per favore nel mio cortile”.
E’ proprio l’assunzione di questo tipo di atteggiamento e conseguentemente l’adozione di comportamenti diligenti e sicuri ad elicitare concretamente la resilienza che ci viene richiesta e che ci serve nel concreto.
Infine uno sguardo di positività… rallentare significa anche avere più tempo per riflettere, rivedere alcuni impegni, riprendere certe relazioni, almeno a distanza…
Assumere temporaneamente una posizione “depressiva” non è poi così male se ovviamente questa modalità può essere utile a rivederti e rivedere con “lenti” diverse, situazioni e progetti, destrutturare paradigmi e certezze mai così in realtà incerte e volatili…
Massimo Servadio
Psicoterapeuta e Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni, Esperto in Psicologia della Salute Organizzativa e Psicologia della Sicurezza lavorativa