Lo smartworking è una buona soluzione, ma si corre il rischio di sviluppare una sindrome da Workaholism: cos’è e quali sono i sintomi più ricorrenti?
Prima dell’emergenza Coronavirus a lavorare da casa in Italia si contavano circa 570 mila persone, corrispondenti al 2% dei dipendenti, contro il 20,2 % del Regno Unito, il 16,6% della Francia e l’8,6% della Germania.
Dopo l’esplosione della pandemia, nel giro di due settimane, il Ministero del Lavoro ci comunica che 554.754 lavoratori sono stati mandati a lavorare da casa: ad oggi, questo risulta essere il più grande esperimento di lavoro a distanza mai attuato nel nostro Paese!
Si è trattata di una situazione senza precedenti, che ha “obbligato” buona parte dei lavoratori a riadattare il proprio stile di vita e di lavoro, talvolta anche con risvolti positivi. Infatti, lavorare da casa ha comportato una serie di vantaggi sia per l’azienda che per i dipendenti, tradotti concretamente in minori giorni di assenza, minori costi, maggiore rispetto delle scadenze e maggiore efficienza sul lavoro. Altre conseguenze, non di meno conto, hanno riguardato la possibilità per i lavoratori di trascorrere più tempo con le rispettive famiglie, mangiare in maniera più sana e praticare esercizio fisico. Situazione che, almeno all’apparenza, sembra sottolineare un migliore livello di soddisfazione generale.
Per avere però un quadro chiaro e omnicomprensivo della situazione, è necessario analizzare anche l’altra faccia della medaglia. Infatti, alcune ricerche recenti hanno messo in luce come il periodo di lockdown che ci ha costretto ad abbandonare la nostra usuale postazione di lavoro non sia stato tutto rose e fiori. Le analisi hanno rilevato come questa nuova tipologia di lavoro tenda a diminuire lo spazio fisico e psicologico tra vita privata e lavorativa, rendendo di fatto il lavoratore iperconnesso (e non solo per l’utilizzo delle piattaforme digitali quali Zoom, Microsoft Teams, Google Meet e altre). Questo può avere effetti positivi (in termini di mobilità, produttività e multitasking), ma fa diventare più evidenti anche le negatività legate all’aumento dello stress lavoro-correlato e delle patologie ad esso connesse.
Alcune interviste effettuate a campioni di lavoratori hanno evidenziato come molti di questi:
Abbiano lavorato almeno un’ora in più al giorno: ossia circa 20 ore (quasi 3 giorni) in più al mese;
Abbiano iniziato le giornate in anticipo per terminarle più tardi, andando oltre le canoniche 8 ore;
Si siano sentiti spinti a rispondere più rapidamente e ad essere disponibili online più a lungo del normale;
Ancora e più in generale:
Si siano sentiti più ansiosi e stressati per il proprio lavoro rispetto a prima;
Abbiano avuto difficoltà a staccare la spina a fine giornata.
Tutti segnali, questi, che evidenziano come si possa incorrere nel rischio di sviluppare una sindrome da Workaholism.
Il termine è stato coniato da Oates, come unione delle parole “work” (lavoro) e “alcoholism” (alcolismo) e si riferisce a persone la cui necessità di lavoro è diventata così forte che può costituire un pericolo per la loro salute, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale. Nonostante la sindrome venga definita anche “work addiction” (letteralmente “dipendenza da lavoro”), essa si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come per l’uso di sostanze, al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un servizio, per il quale si prevede una remunerazione.
I sintomi più ricorrenti nel Workaholism sono:
Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi week end e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;
Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina.
È interessante notare come, al di là delle differenze individuali che contribuiscono a definire un identikit di lavoratore workaholic, ci sono anche aspetti culturali. Nella “Società della Rete”, infatti, che ha costruito la cultura della connessione, il lavoro può seguire la risorsa umana in qualsiasi luogo. La tecnologia, quindi, diventa un mezzo che (col)lega all’ufficio. Negli ultimi decenni, la tecnologia ha reso il Workaholism più diffuso che mai. Questo accade anche perché, culturalmente, essere “occupati” è un distintivo di onore.
Si intuisce, allora, come questo fenomeno, seppur messo in evidenza da una situazione di emergenza, non sia legato solo alla modalità con cui si lavora: viviamo infatti nell’epoca del 24/7, cioè siamo vigili e in una modalità “always on” 24 giorni su 24 e 7 giorni su 7.
Questa problematica risulta ancora in buona parte sconosciuta sul territorio italiano, anche se in altri Paesi il fenomeno è diffuso da diversi decenni. In Giappone ad esempio, anni di studi hanno portato a identificare il fenomeno con il nome di “Karōshi” (morte da superlavoro): è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti.
Risulta evidente come l’era digitale e le caratteristiche e le modalità del lavoro odierno comportino “nuovi” rischi per il lavoratore, a maggior ragione in questo momento dove si stanno sviluppando delle problematiche connesse a questi rischi e sembra che molte realtà stiano ricorrendo ad una modalità di lavoro “ibrida” (facendo i dovuti scongiuri di un nuovo lockdown): metà lavoro a casa, metà in ufficio.
In conclusione, lavorare da casa sembra un’ottima strategia per fronteggiare una crisi di qualsiasi natura (dalla pandemia alla crisi economica) agevolando l’azienda, ma anche il lavoratore. Non bisogna, però, dimenticare di supportare e porre la giusta attenzione alle “vulnerabilità” lavorative.
Articolo pubblicato su Punto Sicuro